Ciao papà!
Dimmi, come stai? Hai freddo?… Io un po’ sì… E allora ti scrivo, per scaldarmi un po’ e quasi quasi la tua voce risuona in questa stanza, come a prolungare la tua presenza…
Sì, certo che ti ascolto! E posso anche vederti.
Te ne vai in giro con i tuoi racconti sotto braccio, giovane e gonfio di speranze, lo sguardo azzurro dietro gli occhiali dalla montatura ingombrante, nera, il ciuffo biondo impomatato, la giacchetta con le toppe ai gomiti. E poi ti siedi e ti accendi una sigaretta, l’ennesima dopo la notte insonne passata al giornale a scrivere il pezzo… sento ancora il ticchettio della macchina da scrivere che scorre sotto le tue dita. E mentre pensi, arriva l’alba di un nuovo giorno.
E poi hai fretta di laurearti e allora decidi di fare l’ultimo esame senza studiare abbastanza (che poi me lo immagino il tuo abbastanza!)… Porti con te tuo padre, chissà, magari è di buon auspicio… Arrivi e metti la tua pila di volumi sul tavolo d’esame, avendo cura di sistemare al centro i libri di cui non hai padronanza, figurati se il professore va a pescare proprio quelli! E invece… è lì che il professore pesca e tu… tu l’esame lo passi comunque! No, non improvvisi alla cieca, costruisci, argomenti, convinci, credi, cogli l’essenziale.
E poi sei sempre in ritardo, i tuoi alunni ti aspettano in classe. Sono gli alunni dei paesini sperduti, dove è passata la guerra, sono i figli della terra e tu sei maestro alle prime armi. Arrivi in classe trafelato, ma con le idee chiare: “Oggi usciamo all’aperto e scriviamo poesie!”, dici. Perché già sai di quanta meraviglia sono capaci i bambini. Ti ridono gli occhi. E qui nasce l’ispirazione, in queste classi sgangherate getti il seme di tutto quello che viene dopo…
E poi ti chiedo di giocare alla nostra danza strampalata. “Ti prego, papà, ancora ancora ancora!” E allora tu mi prendi per mano ed io salgo con piedi bambini sulle tue scarpe e mi lascio volteggiare, e giro e giro, felice e certa che non mi lascerai mai.
E poi… poi ti ritrovo dietro la scrivania del tuo studio, la barba canuta e pochi capelli ribelli lasciati al caso. Immerso in un mare di pensieri, tra carte e scartoffie incompiute, pile traballanti di libri ovunque. Non basta mai, torni a leggere e rileggere, fai e disfai, correggi, riscrivi, crei in un flusso continuo. Lo fai per non morire.
E poi le litigate furibonde. I silenzi interminabili. Diamine se sei testardo! Certo, certo anch’io lo sono. È che ci difendiamo. D’altronde, lo hai sempre detto, è una lotta innata e necessaria per la sopravvivenza. Difendi il tuo spazio di libertà ed io il mio, tu non vuoi mollare, non vuoi rinunciare. Ed io voglio spiccare il volo.
E poi mi dici, masticando un sorriso tra le labbra, che non hai mai pianto, perché pensi che non sia giusto, ne sei convinto. Ma non è vero! Certo hai pianto! Quando ti sei pentito di non aver mai detto a tuo padre quanto bene gli volevi, quando la mamma si è ammalata, quando mi hai abbracciata scusandoti di non averlo mai fatto abbastanza, quando hai avuto paura che tutto finisse… Certo che hai pianto!
Ed io ti sono grata, questo non credo di avertelo mai detto. Ti sono grata perché comunque mi hai abbracciata, più di quel che pensi. Perché sei imperfetto, siamo imperfetti, e posso accogliere quel che lasci senza rancore.
Lo so lo so, si è fatto tardi e devi andare… ma tu torna, torna a trovarmi, che mi trovi qui, a braccia aperte.