C’è una grande felicità nel non volere, nel non essere qualcosa, nel non andare da qualche parte (Jiddu Krishnamurti)
Secondo molte indagini sociologiche i cittadini dei paesi opulenti, italiani compresi, sono sempre più infelici. Dopo decenni di consumismo e di sfrenato individualismo, dopo aver rincorso l’avere a scapito dell’essere, dopo aver assistito all’infrangersi del mito del progresso inarrestabile grazie alla tecnologia, abbiamo forse compreso che la felicità non si può comprare. Per la società del benessere, in fondo, la felicità è una merce come tutte le altre ed essere felici equivale a possedere e consumare sempre di più. L’industria della felicità prova a riempire il vuoto dei valori con i falsi miti della carriera e del successo, dei brand di lusso, della competitività spinta, del lavoro che ti realizza e del politicamente corretto. Gli stessi desideri delle masse sono il prodotto di una strategia di marketing, dove la persona felice è un modello: deve possedere questo e quello, non deve mai accontentarsi e lottare per traguardi di consumo sempre più inarrivabili.
La promessa della felicità si trasforma così in una trappola e, per quanto ci impegniamo, non riusciremo mai ad ottenere quel “di più” di cui la felicità deve continuamente nutrirsi per alimentare la subdola spirale dei consumi. Nel modello dominante neo-liberista la felicità è essere ricchi, appartenere alla ristretta élite di chi ce l’ha fatta a discapito degli sfigati, un’idea di realizzazione personale che implica una società profondamente diseguale dove il vero benessere appartiene a pochi privilegiati. L’idea della felicità come ricchezza individuale si sviluppa infatti a partire dagli anni Ottanta, da quando cioè il modello liberista del “meno Stato e più mercato”, dell’american way of life, dell’edonismo raeganiano, dell’esaltazione dell’individualismo, della meritocrazia come cristalizzazione delle diseguaglianze, si impone come pensiero unico in tutti i paesi occidentali.
Un’idea di felicità che in pochi decenni ha avuto l’effetto di devastare il Pianeta, sempre più inquinato e depredato, e creare sterminate masse di infelici, perché il privilegio è per sua natura esclusivo. Non è un caso se l’1% degli umani possiede il 70% della ricchezza di tutta l’umanità, un indice di concentrazione che cresce anno dopo anno come pure crescono vertiginosamente poveri, disperati e senza tetto.
Il problema è che la felicità capitalistica porta alla distruzione dell’umanità, come aveva lucidamente predetto un secolo orsono Maria Montessori: “a questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace”.
Nelle parole della Montessori c’è indicata causa ed alternativa all’infelicità: condivisione e cooperazione. Dovremmo consumare di meno e preoccuparci di più di relazioni vere (non su Facebook), di comunità, solidarietà ed empatia. Dovremmo essere più presenti nel mondo reale, avere meno aspettative e vivere semplicemente. Se capiamo che la felicità non dipende da ciò che abbiamo ma da ciò che siamo, saremo meno competitivi e più disponibili nei confronti degli altri. Chi semina amore raccoglie felicità, solo così si può costruire un mondo migliore.