Formazione come investimento: mito o realtà?
di Piero Carducci e Maria Orifici.
Quale saggezza può mai esistere fuori dell’umanità? Amate l’infanzia; favoritene i giochi, le gioie, le amabili inclinazioni. Chi di voi non ha rimpianto talvolta questa età in cui il riso non si spegne mai sulle labbra e l’anima è sempre serena?
Jean Jacques Rousseau, Emilio
Intendiamo la formazione come “paideia”, non solo istruzione scolastica ma anche sviluppo etico e spirituale al fine di formare cittadini consapevoli, una forma elevata di cultura in grado di guidare l’inserimento armonico dei discenti nella comunità. E sulla formazione così intesa e nel nostro Paese è drammatica la contraddizione tra il dire ed il fare. La migliore dottrina e le evidenze empiriche individuano nella formazione uno dei principali strumenti di sviluppo personale, di incremento del valore delle organizzazioni e di crescita del sistema economico e civile. In molti tra politici e manager predicano la necessità di investire con continuità sulle risorse umane, viste come componente importante del vantaggio competitivo del Paese oltre che come strumento di miglioramento individuale e del contesto sociale. Ma il credo delle risorse umane stride con una realtà affatto diversa. Alla prima difficoltà di budget, la valenza strategica dell’istruzione viene presto dimenticata e qualsiasi difficoltà di bilancio pubblico o aziendale viene risolto contraendo le risorse destinate al sistema dell’istruzione.
Ma non si trattava di investimenti? Chiacchiere a parte, in Italia le risorse umane sono considerate generalmente un costo, non già la fonte della civiltà, e questo deleterio atteggiamento culturale viene puntualmente registrato dalle statistiche. I dati Eurostat confermano che l’Italia occupa da anni l’ultima posizione tra i paesi europei in termini di spesa applicata all’istruzione, alla formazione professionale, all’università ed alla ricerca. L’Italia impegna il 7,9 % della spesa pubblica nazionale nella formazione, contro una media europea del 10% Non è un caso pertanto se siamo ultimi tra gli ultimi per le borse di studio offerte, per la qualità dell’edilizia scolastica ed universitaria, per il rapporto docenti/studenti (classi pollaio), per i programmi anacronistici, per le nuove tecnologie applicate alla didattica, per l’inadeguato trattamento economico riservato a insegnanti e ricercatori, per l’insufficiente sostegno all’editoria specializzata, per l’insufficiente risposta alla domanda di sostegno, per la crescente dispersione scolastica, eccetera. Siamo ultimi in classica europea per le risorse destinate alla formazione primaria ed universitaria: il Belgio, con appena 17mln di abitanti, spende più del doppio dell’Italia, la Germania spende il triplo e valori simili presentano la Francia ed anche paesi “emergenti” dell’Est.
Tutti i decisori declamano la valenza strategica del capitale umano ed invece il sistema è fortemente sottofinanziato rispetto ai nostri partner europei né le cose certamente cambieranno con il PNRR che conferma il generale disinteresse politico riservato al settore da tutti gli esecutivi ormai da decenni.
Una contraddizione che investe anche il settore privato, dove con qualche eccezione le aziende stanno riducendo da anni il loro impegno complessivo, molto magro anche in passato, concentrando le risorse scarse sulla formazione su misura, cioè legata a specifici obiettivi di breve periodo.
Si è venuta a creare una strana situazione: da un lato la formazione continua viene generalmente percepita — crediamo in buona fede — come uno strumento importante di sviluppo ma dall’altro si vuole spendere sempre di meno, si vogliono durate sempre più brevi e si pretendono risultati sovente impossibili date le limitate risorse messe in campo. Anche nel settore privato, se la formazione viene acquistata con il metro dei costi, risulta evidente che il segmento dell’educazione continua, essenziale per lo sviluppo del potenziale individuale, risulti particolarmente penalizzato nel confronto con interventi spot legati ad obiettivi specifici, soprattutto nell’attuale momento di congiuntura riflessiva.
Che fare? Per stimolare la formazione permanente da parte delle aziende, con proficue integrazioni con Università e ricerca, occorre andare oltre strumenti, pure apprezzabili, dei fondi interprofessionali, dei fondi regionali e del credito di imposta. Occorre prevedere l’integrale capitalizzazione delle spese in formazione, se è vero che sono un investimento e non un costo. In tal modo si annullerebbe pure la sensibilità congiunturale del settore e l’istruzione verrebbe correttamente inquadrata, dal punto di vista gestionale, come investimento che incrementa il valore patrimoniale per via della leva delle risorse umane. Vanno previsti strumenti fiscali automatici di incentivazione, espandendo diffusamente buone pratiche come il progetto “Transizione 4.0”. Con tali strumenti le imprese troverebbero conveniente investire sulle risorse umane, e si dovrebbe espandere il settore della formazione tout court, anche per via della formazione dei formatori. Crescerebbe inoltre l’occupazione qualificata nel comparto che ha bisogno di una sferzata di credibilità e prima ancora di riconoscimento di ruolo. La formazione diverrebbe una cosa seria e non una chiacchiera salottiera sul “valore strategico del capitale umano”.
Ma una normativa siffatta richiede un sensibile cambiamento culturale dei decisori pubblici nei confronti del sistema della formazione nel suo complesso. Tra pubblico e privato deve operare non già competizione e cannibalismo bensì sinergia e cooperazione. Occorre dare alla formazione la centralità che merita a livello politico e nelle conseguenti scelte dei governi. La centralità della formazione chiede riforme durevoli nel tempo, concepite ed avviate da ministri credibili, e pretende una forte base di condivisione politica. I problemi del sistema dell’istruzione si sono sedimentati ed aggravati negli anni, e non riguardano soltanto la progressiva riduzione delle risorse disponibili. La scuola italiana ha problemi strutturali e prima di discutere il modello didattico occorre risolvere alcuni nodi che si trascinano da troppo tempo. Problemi noti riguardano la progressiva divaricazione territoriale Nord/Sud, la crescente dispersione scolastica, la carente istruzione professionale e tecnica superiore, la mancanza di regole certe nel reclutamento dei docenti e la loro insufficiente retribuzione, il mancato riconoscimento del merito, ecc. La formazione pubblica ha bisogno di docenti continuamente aggiornati e selezionati in ingresso con regole oggettive, di una nuova motivazione degli insegnanti e del personale, di una burocrazia meno soffocante, di maggiore autonomia e flessibilità organizzativa che garantisca continuità alla didattica e responsabilità ai singoli istituti. La scuola deve essere un valore morale, un ambiente ludico e costruttivo, un luogo di apprendimento che premia la collaborazione, comprime l’individualismo, e valorizza il potenziale di tutti. La relazione docente-alunno deve tornare ad essere perno della didattica, momento di dialogo e di scambio di esperienze affettive, itinerario di crescita culturale. Occorre ricercare ogni possibile sinergia pubblico/privato/terzo settore, rifuggire al contempo soluzioni fallimentari come le privatizzazioni che già tanto danno hanno arrecato in altri comparti come quello energetico.
Come formatori non possiamo che auspicare un profondo e gioioso cambiamento culturale che deve investire il nostro Paese, la Cenerentola d’Europa per le risorse dedicate ma anche per quanto concerne lo status degli operatori del settore. Vogliamo sperare che il nuovo governo riconosca l’importanza degli attori dell’istruzione, pianificando in una prospettiva finalmente strategica, puntando ad un’educazione fatta di qualità, di pregio e di buone relazioni. Dopo troppi fallimenti occorre rimettere i docenti, i veri “coltivatori” del capitale umano, al centro del sistema. Occorre dare dignità e decoro alla funzione formativa per via della valorizzazione delle vocazioni individuali. Occorre spendere di più perché spendere in istruzione significa investire sul futuro di tutti. Occorre una riflessione su quale società desideriamo per le generazioni future: era appunto questa la “paideia”, dato che educare dovrebbe significare formare alla vita di comunità. La formazione è tale se rende migliori, la missione dell’insegnamento deve essere il motore della ri-costruzione di soggetti etici responsabili e solidali, per imprimere alla storia umana la necessitata direzione della sostenibilità cooperativa, alternativa al dilagante individualismo avido e consumistico, un modello corrosivo che imbarbarisce le persone e sta distruggendo la casa comune dell’umanità. Perché noi non ereditiamo la Terra dagli antenati ma la prendiamo in prestito dai nostri figli.
Piero Carducci, economista e docente universitario, è stato per molti anni dirigente aziendale, amministratore e consulente di società pubbliche e private. È stato direttore della Scuola di formazione tecnica e manageriale del Gruppo Telecom (SSGRR Spa). È co-autore di diversi volumi per LS Scuola.
Maria Orifici si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha maturato una pluriennale esperienza nei processi di pianificazione della formazione, nelle metodologie didattiche e nella valutazione dell’apprendimento. È insegnante nella Scuola secondaria di primo grado. È co-autrice di diversi volumi per LS Scuola.