“Il cliente ha sempre ragione”. Questa espressione molto comune evoca immagini un po’ stereotipate. La sala di un ristorante con i camerieri, piatti e vassoi in equilibrio tra mani e braccia, che fanno lo slalom tra i tavoli. Il negozietto di vendita al dettaglio dove il bancone è stacolmo di merce e il commesso è in bilico su una scaletta per prendere ancora un altro articolo dal ripiano più alto dello scaffale.
“Il cliente ha sempre ragione”. Questa frase si trascina dietro l’eco del pressante squillo dei telefoni nel customer service di un’azienda che immette prodotti o servizi sul mercato. Rimostranze urlate al telefono o inviate via mail, quasi sempre rabbiose, confuse, accampate, pretestuose, a volte sgrammaticate, spesso infondate.
Il cameriere, il commesso, l’addetto al customer service sono alle prese con clienti esigenti, capricciosi e spesso maleducati. Vorrebbero mandarli a quel paese, ma non lo fanno. Invece con gentilezza e pazienza ascoltano le lamentele e si fanno in quattro per accontentarli.
Si piegano alla legge del mercato. Per vendere con profitto e fare buoni affari è necessario corteggiare i compratori, lusingarli e anche lasciarsi un po’ tiranneggiare per soddisfare richieste esagerate e indisponenti.
Sembra un male minore, in fondo per denaro c’è anche chi ruba. Che sarà mai lasciarsi maltrattare un pochino pur di conservare il proprio lavoro? Lavoro retribuito, stipendiato, una fonte di reddito fisso. Prevalgono lo spirito di rassegnazione e un atteggiamento di passiva accettazione della propria condizione lavorativa.
Ma questo ragionamento è sbagliato e pericoloso perché la motivazione fondamentale al lavoro deve nascere dall’idea di realizzare una cosa importante, di realizzare una cosa bella, di svolgere un compito utile. Non può scaturire solo dal bisogno di denaro. Oltretutto questo fenomeno, che in passato riguardava solo alcune figure lavorative come appunto il cameriere o il commesso, negli ultimi anni si è esteso e ha coinvolto anche altre figure professionali come quelle del medico e dell’insegnante. Figure professionali che nelle società del passato sembravano ammantate di un’aura di rispetto per le competenze possedute e per la nobiltà del compito che svolgevano, si ritrovano oggi spogliate di carisma e private di valore. Anzi, specialmente in Italia, accade che medici e insegnanti si sentano giudicati da un’opinione pubblica che li bolla come impreparati, fannulloni e scarsamente impegnati.
Anche a causa di questa denigrazione sociale, in questi ambiti lavorativi si registrano sempre più spesso situazioni stressanti, di burn out. Affiora, dal mondo della scuola, la demotivazione dei docenti, che si ritrovano addosso carichi di lavoro sempre più pressanti, ma al tempo stesso vedono diminuire il credito e il riconoscimento sociale del proprio ruolo. Il lavoro dell’insegnante, viene spesso sottovalutato da chi non lavora nella scuola. Può essere invece molto stressante, per le competenze professionali, psicologiche e organizzative che implica.
Come si è arrivati a questo decadimento? Probabilmente la riforma dell’autonomia amministrativa degli enti territoriali, in atto dagli anni Duemila, ha contribuito a mettere in crisi il sistema. In un certo modo, l’autonomia scolastica ha trasformato le scuole in istituti che devono vendere un prodotto per acquisire clienti. Le famiglie degli alunni sono diventate clienti delle scuole e, in quest’ottica, non vanno scontentate, ma ascoltate sempre, anche quando non sarebbe il caso, pena la perdita di iscritti e l’insuccesso della propria istituzione scolastica.
Così accade che le “famiglie clienti” si comportino proprio come dei consumatori al mercato. Cosa cercano? Qual è il prodotto richiesto? Perché si dichiarano insoddisfatti? Cosa contestano agli insegnanti?
Assodato che il ruolo della scuola sia quello di educare e di formare i ragazzi in modo che siano pronti per affrontare la vita, è chiaro che si tratta di un prodotto impalpabile, complesso da valutare. Allora si contesta la pratica quotidiana, si mettono in discussione i metodi di insegnamento utilizzati. Troppi compiti. Giudizi troppo severi. Voti troppo bassi. Disciplina troppo rigida. Strategie didattiche poco differenziate. Le chat dei “gruppi genitori” sui social diventano un luogo dove nasce e monta il pettegolezzo. Addirittura le notizie di cronaca riportano episodi di violenza contro i docenti, colpevoli di avere richiamato un alunno, di avergli messo una nota sul registro o di non averlo promosso.
E allora no, il cliente non ha sempre ragione. Deve esistere un confine, una linea di separazione oltre la quale le critiche delle famiglie diventano ingerenza. Di fronte a genitori che tendono a iperproteggere i propri figli escludendoli da doveri e responsabilità che la scuola necessariamente richiede, gli insegnanti devono riguadagnare autorevolezza, devono ripristinare quella linea di separazione che, per quanto mutevole, deve continuare ad esistere.
Per un proseguimento tranquillo della vita di classe, gli insegnanti e le famiglie devono ridefinire insieme i rispettivi ruoli per poi stabilire fino a che punto possono essere ammessi i suggerimenti rivolti ai docenti e in che modo. L’insegnante deve rivendicare il suo diritto di essere accettato, soprattutto per i suoi metodi di insegnamento, solo così potrà gestire i rapporti con le famiglie in modo sereno e con un buon livello di definizione e accettazione degli obiettivi comuni che portano scuola e famiglia ad orientare il percorso educativo degli studenti.